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Bono, tra musica e memoria: la recensione da Cannes di Stories of Surrender

Un one-man show intimo e teatrale che svela l’uomo dietro gli U2

Pubblicato il 17 maggio 2025 di Andrea D'Addio

Bono a nudo. Senza band, ma con le sue canzoni. E, soprattutto, con le storie che vi sono dietro. Bono: Stories of Surrender in partenza potrebbe sembrare la semplice trasposizione cinematografica della (quasi) omonima autobiografia, Surrender: 40 Songs, One Story, pubblicata nel 2022. Ma, nella realtà, è qualcosa di ben diverso. Più teatrale, più intimo, più viscerale. È un viaggio interiore con un solo protagonista in scena, ma mille fantasmi a fargli compagnia.

Si parte da un trauma fondante: la morte della madre Iris, collassata per un ictus durante il funerale del padre. Aveva solo 14 anni Bono. Da allora, di lei non si è più parlato in casa. Il silenzio, come un macigno. La canzone I Will Follow nasce proprio da quella ferita. La musica come sopravvivenza, come forma di elaborazione.

Il film, girato in bianco e nero da Andrew Dominik e registrato durante uno degli show al Beacon Theatre di New York, non si accontenta di essere il video di un monologo teatrale. È un esperimento visivo: la camera entra letteralmente in scena, tra luci basse e oggetti simbolici che ci trasporta in una confessione pubblica che riesce a essere, paradossalmente, privata. È un film che ci sta bene al Festival di Cannes (dove è passato fuori concorso): osa, a livello tecnico, molto più di tanti film di finzione.

Bono canta accompagnato da una mini orchestra, in una scaletta che intreccia parole e note. Ogni racconto termina con una canzone degli U2, riorchestrata per arpa e violoncello, che diventa la traduzione emotiva di quanto appena narrato. Tra queste: Sunday Bloody Sunday, Vertigo, Where the Streets Have No Name, Desire, Beautiful Day. E ogni volta si comprende perché quelle canzoni siano rimaste così impresse nella memoria collettiva: sono pezzi di un vissuto autentico.

Tra gli episodi raccontati: la scoperta, solo nel 2000, che il cugino Scott era in realtà suo fratello, nato da una relazione del padre con la cognata. O ancora il cuore “troppo grande” di Bono, che lo ha costretto a un intervento delicato pochi anni fa: «Sono nato con un cuore esuberante», dice con autoironia.

Commovente il rapporto con il padre Bob, uomo duro, che non parlò mai più della moglie morta, ma che, da tenore, sapeva emozionarsi con la musica classica e che ha lasciato in eredità una voce fuori dal comune. Lo stesso Bob che, dopo un concerto degli U2, si limitò a dirgli: «Molto professionale». Da questo nodo affettivo nasce un altro brano fondamentale: Sometimes You Can’t Make It on Your Own.

Tra le immagini più suggestive del film, l’inizio. Bono parla dell’Italia, evocando con affetto il teatro San Carlo di Napoli – anche se all’inizio si sbaglia e dice “Sorrento”. Un dettaglio apparentemente minore che si rivela un trait d’union con il finale, dove la voce di Bono sembra innalzarsi sopra dalla città partenopea per affacciarsi sulla baia di Sorrento.

Non serve essere fan degli U2 per apprezzare questo film. È un racconto umano, sincero, ironico, che svela un Bono distante dall’icona pubblica. È un modo per capire da dentro il perché certi brani abbiano lasciato il segno, perché la musica possa ancora essere testimonianza e confessione. Un film prezioso, anche tecnicamente stra-curato, che usa l’immagine per creare empatia, mai per stupire.

Disponibile su Apple TV+ dal 30 maggio, Bono: Stories of Surrender è anche il primo contenuto a sfruttare pienamente l’Apple Immersive Video per chi ha l’abbonamento Apple Pro.

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